La consolazione e l’impazienza

Come dobbiamo accogliere l’insegnamento di questa straordinaria parabola? Come un messaggio di consolazione per tutti i lazzari di questo mondo che devono essere sicuri che Dio è dalla loro parte e che una volta chiuso il gioco della vita saranno consolati per i mali che hanno sopportato? È un messaggio di consolazione per i poveri? Dobbiamo certo dire: è anche questo. Ma secondo i modi e l’espressione del linguaggio profetico questa raffigurazione dell’esito ultimo della vita del ricco e del povero va assunta come un giudizio sul nostro tempo, sul presente. Diversamente dalle raffigurazioni religiose, in cui la spinta consolatoria è l’unica spinta – per cui esse servono molto al mantenimento dell’ordine, a far sì che i lazzari stiano tranquilli alle porte e non facciano baccano, a far sì che gli epuloni abbiano benevolenza verso i lazzari, ma senza inquietudine per la propria situazione – il linguaggio profetico investe invece in radice questa sperequazione, la condanna e quindi ci obbliga a rimettere in questione il nostro presente. So bene che la funzione consolatoria della rappresentazione dell’aldilà è sotto giudizio. Spesso, questo messaggio è stato usato per contenere l’inquietudine degli esclusi offrendole il miraggio di un capovolgimento delle cose dopo questa vita. Ben insediati nei loro privilegi, i ricchi epuloni – “gli spensierati” come li chiama Amos – non si danno grande inquietudine di questo capovolgimento oltre la vita. Per lo più il loro cuore è ben radicato nell’ateismo sostanziale. Essi utilizzano il linguaggio religioso in funzione della legittimazione del disordine presente. E tuttavia non mi sentirei tranquillo in coscienza se non riconoscessi il valore altamente umano, di grande misericordia che ha questo messaggio per gli esclusi. Noi potremo poi, da persone colte, abituate ad addentrare l’acume critico in tutte le manifestazioni culturali e sociali, vedere in questo l’oppio del popolo e tuttavia, come sanno coloro che li conoscono, i poveri senza l’oppio non vivrebbero. Il problema si pone a chi li nutre di oppio, a chi non lascia loro altra alternativa che quella di morire disperati o di tirare avanti con un lume di speranza nel cuore.

(E. Balducci)

[Prima pubblicazione: 27 settembre 2010]